Musiche 7. Genealogie musicali. Le Loup Garou tra discografie palesi e occulte (le malie di una collezione imperfetta)

Ancora I. Raulsson e i suoi scritti musicali, dopo quelli sulla Sindrome da Fruizione Sonora Compulsiva.

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Premetto: lo snobismo in questo nuovo post regnerà più del solito. Siete avvisati. Le anime buone stiano alla larga.

Prometto: da troppo tempo, a chi lo merita, di scrivere qualcosa su questa band della quale sono stato (e resto) più uno scrupoloso esegeta che un fan. Non potrei scriverne la storia completa: per farlo come vorrei mi ci vorrebbero anni. Farlo male non m’interessa. Opto per una libera descrizione, a braccio, di alcuni punti salienti che hanno segnato la vita di questa formazione sottovalutata da alcuni, sopravvalutata da alcune frange sbagliate (nel senso che meritavano di meno), mal valutata da troppi.

Chi non li conosce può ovviare, oppure smettere di parlare di musica per il resto dei suoi giorni. Chi li conosce e li disprezza è tenuto a dire quanto e cosa conosce della loro discografia (segue risata, mia). Chi li conosce e li apprezza deve ugualmente dire cosa apprezza e perché (la nota di infamia scatta automaticamente per chi sa di aver soltanto canticchiato a memoria, qualche volta, per ingenuo fricchettonismo, una Tashiro Mifune Scappa di Casa, per il fatto che si tratta di uno dei pochi brani in italiano e che, per di più, sembra una sorta di conta, di filastrocca). Porga una guancia chi pensa che avrei dovuto scrivere Toshiro anziché Tashiro. Porga anche l’altra, chi non ha capito.

Insomma, se non è chiaro, sono estremamente geloso de Le Loup Garou. Forse anche per il fatto che – al di là dei vari componenti che si sono susseguiti – sono la persona che ne sa più di chiunque. Voilà. Forse anche perché – al contrario di essi – custodisco il maggior numero di registrazioni rare (e non) partorite da loro. Cominciamo.

     Una metropoli italiana, a metà degli anni Ottanta. Una città di cui sarebbe tanto più comodo non fare il nome, lasciandone da parte cliché e stereotipi che proprio nulla hanno a che fare con Le Loup Garou, con il loro stile, il loro aspetto, le loro tematiche. Allora proviamo a non farlo, questo nome, fin tanto che riusciamo.

Le Loup Garou, il lupo mannaro (e, per favore, non pronunciate la p), non è e non è stata soltanto una seminascosta band di musica leggera. È un’idea, un progetto più vasto, quasi una piccola scuola di pensiero, oppure – per dirla in maniera meno concreta – una specie di energia che ha animato i componenti della band, forse non tutti. Di certo uno, Francesco (Franz, Frank) Prota, il primo e l’ultimo: fondatore, lievito madre (padre), muro portante.

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Chi sia esattamente è la cosa più ardua da dire. Chiunque lo abbia conosciuto lo descrive – e mi ci metto anch’io – come un personaggio capace di stupire da un momento all’altro, e magari con poco. Dovete innanzitutto immaginare un gentiluomo, un personaggio d’altri tempi. Ma in bilico tra la follia e un tipo di imperscrutabile genialità. Frank Prota ha quel carisma che solo i più grandi hanno avuto. Quello che, se fosse nato o vissuto a Londra o a New York, gli avrebbe fatto superare in fama e proseliti anche John Lennon o David Bowie. Inutile che sorridiate, se non l’avete conosciuto. Frank può mostrarvi la complicità saggia di un fratello maggiore, lo scrupolo premuroso di un padre, l’estrema leggerezza di un compagno di bevute, il distacco quasi altero di una specie di Clare Quilty in giacca da camera. E poi una fiducia e una correttezza altrimenti rari di questi tempi. Una cosa non la distinguerete mai: quando scherza e quando dice sul serio. Se non avesse fatto il musicista avrebbe potuto cimentarsi in qualche figura di guru di qualche setta religiosa, tale è la sua capacità di calamitare attenzione e curiosità. Leader, poi, sì, ma con una compostezza e una pacatezza che non hanno mai ceduto alla sbruffoneria. Autorevole ma non autoritario.

La sua storia parte anche da più lontano: alle spalle una rispettabilissima quanto rocambolesca e romantica storia familiare. Sangue russo, per metà, nascita praghese da due luminari della Chimica. Storie di una balia greca, di passati cancellati, rimossi, letteralmente chiusi nel baule di una soffitta, in cima a un enorme palazzone anni Sessanta, in una nuova zona urbana ad alta densità abitativa. Confidenze quasi commosse, fattemi durante una colazione su un luminoso terrazzo di un centro storico, di fronte a un’antica cupola. Storie di una fuga definitiva, a diciassette anni, dalla nuova casa, quella bella, nei quartieri alti, vicino a quel magnifico giardino pubblico che si affaccia sulla città. Frank, insomma, decide di vivere da solo, giovanissimo. E vive, in ciascun senso. Fonda e abbandona un gruppo punk, i Superpila (di cui non resta traccia di brani quali La casalinga messalina o Non ti bacio perché ho l’herpes); all’Università abbandona prima Medicina e poi Psicologia, e fonda infine i Cibo, piccola ma promettente band di pura new-wave, benché un po’ acerba e dai suoni un po’ grezzi. Li fonda con amici di un desolante quartiere periferico, conosciutisi per via di un giro di innamoramenti tra componenti, sorelle e amiche di sorelle.

Cibo Le Loup Garou alba fragalia araba 3

A queste storie si riferisce il brano Muzi-Io, tratto dal demo registrato il primo settembre 1985, mentre altri brani dello stesso demo (Sweet Swetel) erano dedicati a una ragazza soprannominata ‘sudona’ per ovvi motivi oppure (L’Epoke) alla classificazione che essi ponevano tra purpi e semipurpi. Ma che ne parlo a fare se questi brani li avremo ascoltati in una decina, se tutto va male, e se continuo a fischiettare queste canzoni, praticamente inesistenti, con un grosso senso di non appartenenza verso il mondo intero? Ne parlo perché è importantissimo risalire alle origini di certe genialità, attraverso una sorta di genealogia musicale: capire come si sia arrivati al disco X o Y, cosa ci sia dietro. E anche di fianco: è perciò che annoto qui un altro piccolo dato che tornerà utile più avanti: altro brano dei Cibo, And She Takes Me The Hand, fu scritto a due mani da Prota e tale Maurizio Dittura, alias Mauro Gioia. Tenetelo a mente. Il gruppo muore presto nonostante la questa nelle piazze ma le idee ci sono, e sono buone (ah, il giro di basso di Alicomba, la primitiva versione di Bix to Bix, roba da fare impallidire i Diaframma e da ottenere inchini dai primi Bauhaus, il secondo Bowie e i Tuxedomoon di ogni periodo).

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Ma forse è proprio Prota ad andare via, dal momento che gli altri due confluiscono nei già esistenti Sephiroth di Paolo Pagnani – ancora nel solco new-wave, ma con una vena più orientaleggiante e mistica, con vene di Area e Mike Oldfield – pubblicando con l’etichetta Avanscoperta il raro Ishtar (un intero concerto del ’90 è rintracciabile, incredibilmente, qui: https://www.youtube.com/watch?v=RowLQmo_NnA e si cospargano il capo di cenere tutti i novellini alle prese con l’elettronica, la videoarte e l’action painting). Nel frattempo Frank continua tenace nella sua ostinazione e, stavolta, pone la prima pietra di ciò che diventerà forse la sua ragione di vita, l’espressione collettiva delle sue idee: nascono, appunto, Le Loup Garou (1986), grazie all’aggiunta di altri due elementi dalla personalità particolare e incisiva: Guido Caputi e Gigio Borriello. La prima performance pubblica di questi lupi mannari ebbe luogo presso il Caffè della Luna, nella notte (di luna piena) del 2 novembre 1987.

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L’apporto di Caputi è chiaro: con lui si accentua lo stile musicale ed estetico dell’ensemble: sempre meno anglofono il primo e sempre meno modaiolo il secondo. È a questo punto che Le Loup Garou compiono forse involontariamente la scelta di non appartenere a quel tempo e a quei luoghi in cui, più nolenti che volenti, sono nati. Giacche, cravatte, brillantina, ottoni, fisarmoniche, mai un paio di jeans (potete spulciare tutte le migliaia di foto scattate ai componenti del gruppo nell’arco di una ventina d’anni: di jeans se ne vedranno sì e no due paia, per sbaglio). Eppure sarebbero proprio gli anni ’80 pieni, proprio quelli dei paninari o dei new-romantic, dei giubbini di jeans e delle cinte El Charro, delle Big Babol alla fragola e dell’americanismo dilagante. Niente, loro vanno esattamente nella direzione opposta. Onore al coraggio e alla determinazione.

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Ammesso con ottimi voti all’esame finale di Conservatorio (dove studiava clarinetto, pianoforte e composizione), Frank decide di non presentarsi. Nel frattempo viene finalmente pubblicato il primo disco, l’ormai mitologico Ortodoxia (Get Magic, 1992). Stampato in un migliaio di copie, è oggi assolutamente irrintracciabile. E non è da confondere con la pseudo-ristampa da pochissimo circolante tra gli aficionados più attenti. Cari miei: la tracklist non è quella originale. Quando amichevolmente chiesi conferma a Prota, egli disse di non avere più non tanto il disco dell’epoca (questo lo si sapeva già) quanto neppure la tracklist esatta. E chi poteva fornirgliela, se non il sottoscritto? E magari adesso la vorreste vedere anche voi? Potrei chiedervi di non esagerate, perché qui siamo ben oltre la ricetta della Coca-Cola. Ma in fondo mi piace dimostrare che non dico sciocchezze. E dunque segnatevi questa tracklist d’oro:

  1. Ortodoxia (con piccolo omaggio a Hey Bulldog)
  2. L’Homme Ombre (ripresa poi in varie salse negli anni a venire)
  3. Bolero (idem)
  4. Boris Karloff
  5. Principe Igor (di cui si conoscono almeno altre due versioni un po’ più aggraziate, ovvero una ad opera di Borriello solista e un’altra ad opera dei Bappi di Klaus Rando, altro ramo cadetto di cui dirò qualcosa più avanti)
  6. Natascha
  7. Bix to Bix (già dei Cibo, ripeto, e poi confluita nell’album di maggior successo dei LLG)
  8. Alcool (che mi sembra il miglior pezzo della pur inesatta ristampa, https://www.youtube.com/watch?v=RA89gUsTw9o)
  9. Le Lycanthrope (titolo utilizzato svariate volte anche per brani differenti, talvolta solo strumentali)
  10. Wait (forever) (versione dotata di una godibilissima coda che peraltro riprende Pain Dance dell’album successivo, la quale a sua volta citerà Jinx dei Tuxedomoon)
  11. Mommy, Daddy, family car
  12. Moving your eyes (pezzo riuscitissimo, altro non è se non la versione antenata di Bouquet de Sangre, apparsa molto più tardi su Capri Apokalypse)
  13. Los lobos machacados

Le Loup Garou Ortodoxia alba fragalia araba 7

Nella nuova versione di Ortodoxia mancano del tutto i brani 4,6 e11 mentre appaiono titoli che a parer mio hanno altre origini:

  1. Right to take the sun (antenata di Passer Frontiere apparsa su Wipiti Dance Dance)
  2. Empasse Mystique (tremendamente targata Cibo. E non immaginavo, visto che ne conoscevo un’irriconoscibile versione – più che altro una decina di demo praticamente identici tra loro – cantata da Carin Jurdant parecchi anni dopo)
  3. Randevoux [sic!] avec Madame la Liberté (farina del sacco dei Lunatic Asylum di cui sto per dire qualcosa. Oppure plagio dei Lunatic a danno dei LLG? Di sicuro sta nelle vecchie raccolte dei primi).

Esiste poi un paio di brani remoti, credo coevi a questi, che neppure il sottoscritto ha potuto scovare. Si tratta di Messer Galvano’s Oration e di Better love (Bogi bogi bo). Potremmo quindi istituire una taglia, almeno per questi cinque brani non recuperati.

Ma che combinavano questi Loup Garou? Collaborazioni della prima ora col teatro locale indipendente, con artisti non strettamente legati alla musica (The Wilk Oil Galvano, di Vittorio Lucariello; L’Homme Ombre, di Ludovica Rambelli; Dal Mattino a Mezzanotte), e poi la loro opera, quella musica assolutamente inconfondibile e non classificabile in generi e correnti precise. Ancora abbastanza new-wave all’epoca, è vero, non ancora troppo folleggiante come negli album successivi, ma già dotata di un marchio di fabbrica che lasciava interdetti, spiazzati.

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È del 1990 la loro vincente partecipazione a un festival per artisti emergenti, e di questa esibizione custodisco gelosamente una videoregistrazione: i nostri sono alle prese con quattro brani di Ortodoxia più una nostalgica Quizas, genialmente privata del banale ritornello. Ma questo non dice nulla. Bisogna vederlo, quel Prota dallo sguardo inquieto, in giacca circense e faccia pitturata di bianco. Bisogna ascoltare il decadente dialogo in francese tra Prota e Borriello, all’inizio del concerto, i riferimenti a Le Sonneries de la Rose Croix di Erik Satie, alle gloriose Editions Salabert, alle corrections definitives effectuée par Erik Satie le même ecc., nel mentre si noterà che è la stessa introduzione che verrà poi ripescata per un brano dell’album 13 Pequeños Bau Bau, mentre qui introduce un pezzo poi rivisto in Capri Apokalypse. E quella lampada, che ondeggia in primo piano, per alcuni fotogrammi, sarà mica un prestito da una scena di “C’era una volta in America”? Non saprei, ma la registrazione originale del concerto era preceduta, sullo stesso nastro privato di Prota, dalla registrazione di alcuni film tra cui questo.

Leggenda vuole che Caputi abbia lasciato il gruppo all’indomani di questa pubblica esecuzione (in cui non è ancora presente il quarto personaggio chiave). Fatto sta che in un paio di foto d’epoca appaiono tutti e quattro insieme, i nostri tre più il nuovo arrivato, il valentissimo bassista Marco Di Palo.

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Questioni di lana caprina, e avete pure ragione. Come questioni insondabili e secretate sono quelle alla base dell’antica diatriba Caputi-Prota. Non indaghiamo (o, meglio, facciamo finta di non averlo fatto) ma fatto sta che l’abbandono del gruppo, da parte di Caputi, lo privò di buona parte di un patrimonio genetico eccezionale. Certo, fu condizione necessaria perchè Le Loup Garou diventassero quello che di lì a poco sarebbero diventati, e non c’è nulla da rimpiangere, però però però… qualche nuovo brano da scrivere in coppia potrebbe ancora stupire, ne sono certo. Ciò non toglie che il duo Prota-Di Palo seppe comportarsi egregiamente, quasi nostrani Lennon-McCartney: basti pensare a un capolavoro come Las Palabras de mi Alma, sottile, tagliente, essenziale nelle appuntite apparizioni di basso sulle note ostinate del pianoforte. E a quel testo agrodolce, ironico, malaticcio:

Aujourd’hui c’est un jour magnifique

Le soleil c’est un peau couvert par le nues

Aujourd’hui je ne veux pas de vulgaritè

Faire une promenade c’est assez

Mon travail c’est assez bon

Oh, oui, la vie c’est merveilleux

Le ciel, la mer et ma petite amie

Existent choses exceptionelles

La mer, mon père, Monsieur le President

Yo estoy escribiendo una carta de amor

Y las palabras son salidas de mi alma

Yeux luisants de fièvre

La culture occidentale

Pleurer et rire, pleurer et rire

Et la mort, la vie, la mort, la tristesse

Je ne me souviens jamais de rien

Je dois enlever tous le meubles de ma chambre

Je dois ranger mes memoires peut être

Existent choses exceptionelles

La mer, mon père, Monsieur le President

(https://soundcloud.com/francesco-prota/las-palabras-de-mi-alma)

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Venne così il tempo del secondo disco, il già meno introvabile The Grave and the Trees (Get Magic, 1994), altro piccolo capolavoro che nello stile testimonia a perfezione il passaggio tra il precedente e il successivo: intendo che diverso da com’è non poteva proprio essere. Anzi è forse quell’anello di mezzo in cui s’era raggiunta un’armonia ottimale tra i primi stilemi e le pirotecnie musicali e sceniche degli anni successivi. Almeno qualche brano, oltre la title-track, va citato (e sono fiero del fatto che la maggior parte dei vecchi brani dei LLG sia introvabile online. Roba fina, mica per tutte le orecchie): Forever Glad, La Region des Loups benché, va detto, l’album contenga fuori tempo massimo un brano ancora a firma Prota-Caputi, la visionaria e arcimitteleuropea Fin de Siècle Magic Tour:

I’ve met an ill behind the glass

He said “I’m not where you see me,

Overwhelmed by the accidents

I am dripping through this age.”

“In London I’ve passed through the bombs

It seems it was the ‘41.

Workers marching through Kaliningrad

I am sinking in the sea of past.”

He goes back and forward

Through a whipping trip

Advertising called it:

“Fin de siècle magic tour”…

“A crowd of souls knock on my head,

A smoky ghost over Berlin,

Soldiers singing in a train

While the Norge is leaving Rome”

See the Hindenburg

Burning clouds over Paris

Slightly shipping

And dissolving through the air…

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Sarà che quando si raggiunge un apice non ci si può spostare senza scendere, fatto sta che dopo questo secondo disco Di Palo è costretto, a malincuore, a lasciare il gruppo. Ancora una sottrazione di patrimonio genetico, da una parte; ancora un’apertura verso nuove opportunità, a voler essere ottimisti. Prota, caparbio, lo fu. E si trattò della più provvidenziale svolta nella storia di questo collettivo. Resta il ricordo di un’altra accoppiata inimitabile e l’ovvio cruccio, di non poter sapere cosa ancora avrebbe potuto creare.

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Però fermiamoci un attimo. Prima di addentrarci nel periodo d’oro dei LLG, andiamo a vedere che germogli ha dato, nel frattempo, il secondo ramo cadetto (dopo i Cibo), quello di Guido Caputi. Costui fondò con Massimiliano Sacchi un duo interessantissimo quanto manicomiale, e non a caso denominato Lunatic Asylum, con qualche incursione di quel Maurizio Dittura già citato trattando dei primi Cibo. I Lunatic Asylum sono ancora più inattuali dei primi LLG, ancora più immersi, in modo irreversibile, irrecuperabile, in un immaginario da vecchia Europa, divise militari e sovietismo dilagante (molto più colto – peraltro – di quello blaterato dai coevi CCCP). Non conosco la raccolta Stalin’s Favourite Songs, ma possiedo i due volumi di Sexklinik Tropical (1993-1997), riuscitissimi esperimenti della staliniana ‘musica formale’ contro cui si scagliarono gli strali di Šostakovič. Eccettuato qualche vago episodio un po’ in stile Van Dyke Parks, li si potrebbe ascoltare sfogliando Gogol: tutto un fiorire di marcette, compagni funzionari, saluti alla bandiera, ebrei di Crimea, citazioni della lugaruviana Lycanthrope, pratiche ministeriali ed emanazione di decreti delegati. Non riesco, in questo preciso momento, a non pensare ad alcuni versi inestirpabili dalla mia memoria: “necrofori festosi sbandierano le pale, danzando lungo il viale con chiara volontà”, oppure “cinquant’anni nel corpo degli Alpini, trenta mesi tra le valli del Cadore, difendiamo la patria e i suoi confini, ripeteva il Signor Maggiore” o, ancora, “qui non si dorme mai, nemmeno nelle ore che precedono l’alba” (che in verità mi viene puntualmente in testa quando fattori esterni mi impediscono di dormire). Altri due brani interessanti: Tadjikistan Summer, reperibile fino a poco tempo fa su un sito del gruppo, assieme a una curiosa rivisitazione della famosa Podmoskovnie Vecera. Il tutto farcito di Lubjanka, STASI, Boris Alexandrov, Coro dell’Armata Rossa e Bratwurst con senape Bautz’ner. Un commovente delirio, insomma, da ascoltare in sciarpa e colbacco dentro una Skoda dal lunotto ghiacciato o una vecchia Zil dai vetri oscurati.

Lunatic Asylum alba fragalia araba 13

Torniamo a noi. Le Loup Garou assume nuove sembianze con l’ingresso di tre nuovi personaggi: Tottolo Stefanelli, Klaus Rando e Carin Jurdant. Carin, nata ad Ath, ha alle spalle esperienze teatrali e acrobatiche. Ha una buona voce, una presenza scenica sicura: diventerà la prima presenza femminile fissa, all’interno del collettivo (dopo i fugaci e strumentali passaggi di Giovanna Marmo, che tornerà più in là, e di Ludovica Rambelli). Il francese dei testi ne risulterà senz’altro più impeccabile. E, in più, suona la fisarmonica: l’assenza di Caputi è servita. Rando è un personaggio da fumetto, un altro gentiluomo più imberbe e allampanato, dotato anch’egli di una sua propria genialità fuori dagli schemi, suonatore – in prevalenza – di basso e di corno.

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Sono dunque loro quattro ad aggiudicarsi il primo posto all’Arezzo Wave del ’94, grazie a quell’esibizione del 24 giugno) di cui resta una documentazione forse parziale (dei primi quattro possiedo copia audiovisiva, dell’ultimo esiste traccia sull’audiocassetta ufficiale di quell’edizione del festival)

  1. Le Petit Ballon (già apparsa nel precedente disco)
  2. Yatamonaroa (antenata della splendida Mary 35 del disco successivo, https://myspace.com/le.loupgarou/video/yatamonaroa/4965831)
  3. Pepi va a la Cruz (versione embrionale di Pepi y Santa Cruz)
  4. Je Creuserai la Terre (riveduta, poi, due dischi più in là)
  5. La Syrene (antenata di Mira Eleanora)

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Comincia a farsi strada una venatura leggermente più etnica e si pongono le basi di un primo vero e proprio tour italiano (trenta concerti in due mesi) nonché di concerti in Europa e più lontano fino a raggiungere presto le cinquemila date: Francia, Palestina, grazie anche a piccole pubblicazioni con etichette straniere, come Las Jirafas y Los Lobos (1995), stampato in Francia per la Prokosnovenie e in Italia per la solita Get Magic, cui seguirà l’ep Le Petit Ballon (Prikosnovenie, 1996).

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È evidente che il gruppo abbia ormai raggiunto un equilibrio perfetto e sia destinato a qualche successo così com’è, senza cambiare una virgola. L’album 13 Pequeños Bau Bau (Polosud, 1997) si distingue innanzitutto per un particolare nel panorama delle produzioni musicali indipendenti: altissimo numero di copie vendute, bassissimo budget di produzione e promozione (lo trovavate alla fine dei concerti, mai nei negozi). E, in più, è un capolavoro già a cominciare dalla grafica del coloratissimo digipack che si piega svariate volte su se stesso e contiene – chi lo aveva fatto finora? chi lo farà più? – un adesivo omaggio, il logo del gruppo. Aprirlo è come scartare una tavoletta di cioccolato Wonka, è un disco che personalmente ho consumato fino all’esasperazione, uno dei dischi da isola deserta, senza il quale non si può dire d’ascoltare musica consapevolmente.

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Le tredici piccole canzoni sono una più bella dell’altra e, anche stavolta, scordatevi di poterle trovare comodamente su YouTube: sono piuttosto nascoste e trovereste con facilità soltanto la più nota, sulla quale glisso, quindi vi aiuto io con pochi link, spiattellando innanzitutto il capolavoro assoluto, la canzone cui mai rinuncerei al mondo, Mary Thirtyfive (https://www.youtube.com/watch?v=w0E6fFMtD58), poi Je Connaissais Bix to Bix (https://www.youtube.com/watch?v=587qHTucOCU&list=UUsaXwSSYaV448YQYCH7DmYw), Scienta Matka (e vi dovete accontentare di un live recente: https://www.youtube.com/watch?v=bYSPkhl6X9A) e infine Mon Ami Albert (di cui vi propino un altro live recente, preferibile per un’esilarante ammissione di errore da parte di un Prota temporaneamente a corto di fosforo: https://www.youtube.com/watch?v=XpJozN6cKPs&list=PLtM0egGCAQ_wZ6r21hDXHJfvD-tMZbARd&index=4).

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Seguirono tre anni di un tour che toccò Svizzera e Spagna, ed è a questo periodo che risalgono alcuni rari footage (37 prove per un clip di Pepi Va a la Cruz e una manciata di brani videoregistrati in un noto centro sociale meridionale) ma è soprattutto il periodo in cui l’iconografia del gruppo riesce a dare il meglio di sé, attraverso la scelta di mantenere, sì, giacca e cravatta, ma di sostituire i pantaloni con dei gonnellini rossi. Per tutti. L’apoteosi era l’esecuzione, sempre e soltanto live (la canzone non fu mai registrata) di quella folle Boni Boni cantata da Rando.

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Da lì in poi la strada sarà ovviamente in discesa, il successo in salita, i dischi pubblicati aumenteranno, se pure con qualche pausa e con qualche pecca. Solo un anno dopo è la volta di un altro ep, Pepi, Tashiro un Lezte Tanz (1998, realizzato con i consigli della vecchia conoscenza Marco Di Palo – e anche qui scordatevi YouTube), e di un libro quadrato, pieno di foto anche molto vecchie, di testi e spartiti di brani anche inediti. Dell’ep andrebbero sottolineati almeno due brani: Tu dici che (Mukki Mukki) (a firma Prota-Marmo ma che sembra tagliata su misura per la voce di Rando) e Cuando Yo Estoy Solo, piccolo e garbato episodio onirico, a firma Prota-Jurdant.

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Il libro, invece, è una chicca che già lava provvidenzialmente i cervelli che anelano a qualche fissazione da proselitismo incondizionato. E peraltro contiene testi di vecchie canzoni edite (da Ortodoxia, da The Grave and the Trees, da Pepi Tashiro und Lezte Tanz – come la Mukki Mukki con testo leggermente diverso), inedite o di successiva pubblicazione (Je Creuserai la Terre, Black Flamingos, Me and the Dragoon, Les Martiens). E la successiva pubblicazione arriva ancora abbastanza presto, dopo un altro solo anno: Wipiti Dance Dance (Viceversa Records, 1999).

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Annoto soltanto piccole perle: La Vie N’est Pas Rose, Passer Frontiere, Commander Said, L’Homme Invisible, Tikkitagaruppa, Les Martiens. Anche stavolta niente YouTube, se non per due trascurabili live del primo dei pezzi citati. Che vi posso dire? Con amarezza dico che si tratta dell’ultimo album grandioso de Le Loup Garou, il botto finale dei fuochi d’artificio. Non lo vorrei sostenere ma non riesco a essere più clemente nei riguardi di quelli successivi. La sezione strumentale è superbamente curata, c’è ancora dell’originalità geniale, dalla quale Prota e gli altri hanno saputo pescare a piene mani. Anche Rando riesce ancora a dare il meglio (sia nella malinconica L’Homme Invisible che nell’assolutamente surreale Tikkitagaruppa). Di quel periodo conservo anche l’audio di un’intervista a casa di Prota (I gechi volanti, 31.10.’99) e un successivo ep riservato ai critici musicali, Supermary-The Interview (Viceversa Records, 2000) del quale si distinguono certamente Doctor Zaruk (morbosetta rivisitazione musicale di Mon Ami Albert e testuale di Le Petit Ballon). Per il resto, il cd è zeppo di rimandi musicali di ogni sorta: dalla Promenade dei Quadri di un’Esposizione di Modest Musorgskij ai jingle di cartoni animati (dai Rugrats ai classici Warner bros.) fino alle battute in perfetto stile Frankenstein Junior. Ma ne emerge soprattutto un brano sottovalutato e infilato lì tra le righe, anzi, tra stralci di una finta intervista volutamente demenziale (tu no deve dimentica Ganga Taccabirba, barcaiolo spensierato…), e mi riferisco a Cowboy John, che non avrebbe sfigurato in qualche glorioso album mainstream dei migliori artisti indipendenti all’ultimo grido (la qual cosa non deve sempre suonare come un’offesa).

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L’ultima scintilla di quelle fiammate fu forse la pubblicazione – su un cd de «Il Manifesto» (Disseminazioni – Silainfestalive) – di due brani registrati nell’estate precedente durante un concerto sulle montagne calabresi (Wipiti e Tashiro) o quelle due prove audiovisive, risalenti all’ottobre 2000, per il futuro brano Narcotizzami, nelle quali si nota già, purtroppo, un’altra spiacevole mutazione nella line-up: anche Klaus Rando è andato via e, con lui, un altro pezzo di vita del gruppo, un altro preciso periodo stilistico, forse quello più trionfale.

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Nasce così un ulteriore ramo cadetto, quello dei Bappi, formazione fondata e guidata appunto da Rando. Nessuna pubblicazione ufficiale all’attivo ma un discreto numero di concerti, sempre in circuiti minori e “in penombra”. Lo stile è molto simile a quello dei LLG di 13 pbb, anzi, forse vuole proprio ricreare quella semplicità sfrondando qua e là certe ridondanze negli arrangiamenti di Wipiti e, ancora di più, dei dischi a venire. È una scelta quasi conservatrice, quella di Rando: a tutelare un marchio DOP ci pensa lui, insomma, ma dall’esterno. Di questa band possiedo 33 brani, distribuiti in due cd non ufficiali: un lungo demo precedente al dicembre 2003 e la registrazione ‘clandestina’ di un concerto del dicembre 2004. Non è che Rando, ovviamente, si limiti a ribadire il repertorio dei LLG: tutt’altro. La maggior parte dei brani è farina doppio zero del suo sacco. Certo, riprende L’Homme Invisible e, ancora, la splendida borodiniana Principe Igor, ma ci aggiunge anche Hyppo e molti altri gradevolissimi brani in inglese o in italiano di cui, purtroppo, non si conosce neppure il titolo (senza contare cover dei Beatles e di un’imprevedibile 24.000 baci).

Forse è la mia impressione ma è questo il momento in cui il lupo mannaro comincia a sentirsi stanco e il progetto rischia di annaspare. Frank e Carin si distraggono temporaneamente (2001-2004) con il duo Barillaz che pubblica il grazioso brano Samurai Boom e lascia inedito il cd Mary Likes It Hot (forse quello che conteneva gli altri brani del duo da me conosciuti: Furore, Get Down On Love, Mata Hari).

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Contemporaneamente, nel 2002 Prota fonda la factory ‘Neapolitan Surfers’ che produce intanto Sex In Legoland di Giovanna Marmo, contribuendo alla colonna sonora di questo spettacolo teatrale. Siamo in tutt’altro contesto, la musica è uno sfondo al servizio delle scene (esiste sia il cd sia la rara videoregistrazione dello spettacolo tenuto il 13 maggio 2002 al Teatro Carignano di Torino) eppure l’impronta di Prota è ancora rintracciabile in alcuni suoi timbri di proprietà, in alcune sue allegre ossessioni: lo spettacolo è introdotto, ad esempio, dalla sigla di Attenti a Quei Due, di John Barry (che peraltro – inciso di passaggio – trovo spaventosamente simile, nello stile, al Thème de Candice di Francis Lai) mentre si chiude con l’incalzare di Lolita Ya Ya, il motivetto scandito dalla non ingenua radiolina sul prato di casa Haze.

È poi la volta dell’altra collaborazione ‘esterna’ per Beau and Beast; con Renata Cagno (Frida, l’Arte dell’Agguato); e con Lorenzo Scotto Di Luzio, un’incursione nell’arte contemporanea che deve avvalersi di musicisti in gamba e si affida a LLG. Il progetto è quello di ricreare un vinile nei modi e nelle forme stilistiche e grafiche degli anni ’60, con la stessa innocenza. Non è tanto, dunque, un disco da ascoltare, quanto un’opera concettuale da esporre. Tiratura limitatissima: 100 copie (10 copie per ognuna delle 10 copertine disponibili). Prezzi relativi al contesto, ovviamente. Si tratta di cover di Luigi Tenco, reinterpretate in maniera abbastanza fedele (tanto di cappello alla piccolissima variazione di organo al termine dell’introduzione strumentale di Se Sapessi Come Fai).

Le Loup Garou Scotto di Luzio alba fragalia araba 24

Tuttavia, o sono cambiato io o sono cambiati loro: mi sembrano perduti lo smalto e la creatività iniziali tanto nel pur visionario Capri Apokalypse (2004, fatta eccezione, forse, per un paio di brani cantati da Stefanelli) quanto in Makarri Twist (2009, ma in realtà concerto del 2005). Di mezzo c’è un cortometraggio che, confesso, ignoro (Gominati Orgonic Adventures, 2006) e un piccolissimo episodio semisconosciuto e ben fatto: la pubblicazione di un singolo brano per un cd de «Il Manifesto», in ricordo di Peppino Impastato (26 Canzoni Per Peppino Impastato): una poesia scritta da lui e musicata da LLG, A pinsari.

Dopo due anni di silenzio, è ancora altrove che si rivolge lo sguardo di Prota: pubblica così il vinile di pseudo-esordio di un altro gruppo: ma è ancora lo stesso entourage a suonare, lui compreso. Canta, invece, quel Gigio Borriello che avevamo lasciato indietro, poco dopo Ortodoxia: nasce così Only The Lonely, di Louis B. & Chance Giardinieri (2011). Divertente, anche nella cover di Guarda Che Luna, ma purtroppo privo di altri brani sciolti che Borriello aveva registrato nello stesso periodo (su tutti, una perfetta rivisitazione della vecchia Principe Igor). Ancora sullo stesso (micro)solco del precedente, dopo due anni torna Le Loup Garou in persona con l’ultimo vinile: Ancient Poet’s Rock’n Roll (2013). Tutta un’altra storia, un altro immaginario. Mentre la nostalgia preme sul ricordo dei vecchi dischi, delle vecchie formazioni, e dei vecchi palcoscenici.

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Perché qualcosa di buono da dire, Le Loup Garou ce l’ha ancora. Basterebbe andare a ripescare alcuni brani inediti che possiedo per vie traverse. Non parlo di riprendere quel brano strumentale eseguito da un clarinetto in tempi di Cibo (sarà Brahms? Lo sembra). Ma almeno la splendida, vecchissima Le Cardinal Ruffo (personaggio di Caputi, ma canzone a firma Prota-Jurdant), quell’altra vecchia Le Lycanthrope solo strumentale. Oppure, per andarcene agli inediti del 1996-‘99, Cattivoni (su base di Tashiro), Dear Coco, Another Coco. O a quelli del periodo 2003/2004: La Bella e La Bestia, La Nuit De Le Dragoon, Prostitute (fenomenale cover, riveduta e molto scorretta, di Mongoloid dei Devo) e, ancora, Talk To Mella, Ich Liebe Dich ma soprattutto quei due splendidi brani inediti scritti e cantati da Stefanelli: Star Trek e Bellissimo (altri inediti, pure interessanti, non si presterebbero a novità di rilievo. Penso a una The Grave and The Trees contenente un coretto di Komm Mit Zurück; a una Mia Vita Sexuale (sic) sfociata poi nella stessa Komm Mit Zurück; a varie versioni di Empasse Mystique; e a quell’altra versione di Mukki Mukki contenente l’inserto pseudo-radiofonico di cui al finale di Ortodoxia).

E siamo riusciti a non dire il nome della città. Piccolo, commosso indizio: tra i nastri di qualche vecchio demo ho ritrovato una registrazione strumentale risalente all’85: Prota che suona alle tastiere Voce ‘e notte.

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4 thoughts on “Musiche 7. Genealogie musicali. Le Loup Garou tra discografie palesi e occulte (le malie di una collezione imperfetta)

  1. Complimenti, un articolo molto bello.
    Due cose:
    1) mi interessebbe avere le registrazioni dei brani dei Bappi (Posso ricambiare con materiale Loup Garou-Prota che sicuramente non hai. Fidati del “sicuramente” 🙂 )
    2) Hai mai sentito parlare del progetto musicale “Piperita K” ? Ho il vago sospetto che possa essere ricondotto al “clan” mannaro (in particolare a persone vicine a Tottolo), ma non ne ho la certezza. Qui puoi trovare tre magnifici brani (non conosco altro): https://myspace.com/piperitakappa/music/songs
    Ciao

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  2. Ciao, hai davvero così tante canzoni dei bappi? E di che live si tratta? Mi piacerebbe sapere un po’ di cosa si tratta, se non ti secca. Complimenti per il post.

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    • Grazie. Sì, ho quelle che ho detto. Quelle in studio sono contenute in una raccolta regalatami un sacco di anni fa da Claudio Rando.
      Il live lo registrò (con mezzi abbastanza scadenti) un mio amico alla Galleria Toledo.
      Altro, rispetto a quanto già scritto nel post, non saprei dirti 🙂

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